“Innocenti”, viaggio nell’Italia degli errori giudiziari: 100 mila vite rovinate e un miliardo speso in risarcimenti

Cento mila. Tanti sono gli innocenti finiti in carcere ingiustamente in Italia dal 1992 a oggi. Un numero impressionante che equivale a riempire uno stadio per un derby o a formare una catena umana tra Roma e Napoli. A riportare alla luce questa tragedia collettiva è il libro-inchiesta Innocenti (Giappichelli editore), scritto dai giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, fondatori di errorigiudiziari.com, la più completa banca dati italiana sull’ingiusta detenzione e gli errori giudiziari.

Nel volume, appena uscito in libreria e disponibile sulle principali piattaforme online, gli autori danno voce a un’Italia invisibile: quella dei danneggiati dalla giustizia, colpevoli solo di essere stati nel posto sbagliato al momento sbagliato, o vittime di omonimie, indagini lacunose, errori procedurali e decisioni affrettate.

Una strage silenziosa

Secondo i dati raccolti, lo Stato italiano ha sborsato quasi un miliardo di euro in indennizzi negli ultimi trent’anni, ma solo un terzo degli aventi diritto riceve effettivamente un risarcimento. Molti, dopo anni di dolore e umiliazione, rinunciano persino a chiederlo: non vogliono più rivivere l’incubo o non possono permettersi le spese legali.

A pesare su questo scenario è anche l’abuso della custodia cautelare, che troppo spesso viene utilizzata non come extrema ratio, ma come strumento di pressione investigativa. “Pericolo di fuga, inquinamento probatorio e reiterazione del reato sono condizioni sovente presunte in automatico, senza un effettivo vaglio di necessità”, denuncia Gian Domenico Caiazza, avvocato ed ex presidente dell’Unione delle Camere Penali, nella prefazione al libro.

Custodia cautelare: da garanzia a scorciatoia

Il carcere preventivo, così come gli arresti domiciliari, dovrebbe essere disposto solo quando strettamente indispensabile, come misura eccezionale e temporanea. Invece, troppo spesso si trasforma in una scorciatoia giudiziaria, uno strumento per “spezzare” il presunto colpevole e accelerare l’indagine.

Ma quando l’impianto accusatorio crolla, resta l’ingiustizia irreparabile: mesi o anni di libertà negata, famiglie distrutte, reputazioni annientate, esistenze spezzate. Il tutto, senza garanzie di reale risarcimento e con la macchina giudiziaria che raramente riconosce le proprie colpe.

Una lettura necessaria

Innocenti è più di un’inchiesta giornalistica: è un atto d’accusa documentato, una raccolta di storie vere che mettono in discussione il modo in cui si esercita la giustizia penale nel nostro Paese. È anche un invito a riflettere, con dati e testimonianze alla mano, su quanto sia fragile la presunzione d’innocenza e quanto possa essere drammatico un errore, quando ad esserne vittima è un essere umano.


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Processo penale telematico, il PDP si aggiorna: i nuovi atti depositabili online

Il processo penale telematico compie un altro passo avanti. A partire dall’11 luglio 2025, infatti, il Portale per il deposito degli atti penali (PDP) consente l’invio digitale di una nuova e articolata serie di atti, fino a oggi non direttamente depositabili tramite il sistema online. Lo ha annunciato il Ministero della Giustizia con la circolare n. 7285 dell’8 luglio 2025, che illustra nel dettaglio tutte le novità introdotte con l’ultimo aggiornamento del portale, eseguito il 10 luglio.

Le nuove funzionalità, pensate per snellire il lavoro degli avvocati e migliorare la tracciabilità degli atti, prevedono l’ampliamento dell’elenco degli atti depositabili sia durante il procedimento in corso sia a seguito di definizione irrevocabile.

Più atti, meno carta: ecco le principali novità

Tra le innovazioni più rilevanti c’è la possibilità, ora operativa, di depositare direttamente online:

  • atti relativi alle indagini difensive,
  • comunicazioni di impedimento del difensore, comprese quelle per gravidanza,
  • istanze e memorie anche successive alla nomina del difensore,
  • documenti relativi a misure cautelari, appelli e rinunce,
  • atti di parte civile, querelante e responsabile civile,
  • richieste di accesso agli atti anche in fase dibattimentale,
  • revoca della costituzione di parte civile e riparazione per errore giudiziario,
  • memorie di replica, istanze di riunione, trattazione orale, o interrogatorio spontaneo,
  • rettifiche e non accettazioni del mandato.

Tutti questi atti si aggiungono a quelli già previsti dal portale, rendendo il fascicolo digitale uno strumento sempre più completo e operativo.

Anche per fascicoli definiti

Il nuovo aggiornamento consente anche il deposito telematico per procedimenti definiti con sentenza irrevocabile o con decreto penale. In questi casi è ora possibile inviare digitalmente:

  • richieste di restituzione nei termini,
  • domande di restituzione dei beni,
  • istanze di liquidazione dell’onorario,
  • opposizioni a decreto penale,
  • memorie difensive post-sentenza,
  • correzioni di errori materiali,
  • richieste di accesso agli atti,
  • esercizio del diritto all’oblio.

Obiettivo: semplificazione e uniformità

Un altro aggiornamento tecnico riguarda i controlli sui depositi, migliorati per assicurare che gli atti vengano automaticamente indirizzati all’ufficio competente presso cui è pendente il procedimento.

Il Ministero punta così a rendere il processo penale sempre più accessibile in via digitale, nel solco della progressiva modernizzazione della giustizia italiana. L’intervento, che coinvolge direttamente avvocati, parti private e operatori di cancelleria, si inserisce in un piano più ampio volto a semplificare le interazioni con il sistema giudiziario, riducendo tempi e burocrazia.

La circolare ministeriale n. 7285/2025 è consultabile presso il sito istituzionale del Ministero della Giustizia e rappresenta il riferimento normativo per l’applicazione operativa delle novità.


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Cyberminacce alla PA: nasce il manuale digitale per difendere 3,2 milioni di statali

La Pubblica Amministrazione corre ai ripari di fronte all’escalation di attacchi informatici che nel 2024 hanno messo nel mirino istituzioni, enti pubblici e infrastrutture strategiche. Il Dipartimento della Funzione Pubblica, guidato da Paolo Zangrillo, ha redatto un vademecum operativo per i 3,2 milioni di dipendenti pubblici italiani, contenente le principali regole di “igiene digitale” per prevenire intrusioni, furti di dati e danni ai sistemi informatici.

Il documento, nato su impulso del sottosegretario Alfredo Mantovano e frutto della collaborazione con il Mef, l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale (Acn) e l’intelligence interna (Aisi), sarà presto esaminato dal Consiglio dei Ministri e reso disponibile sulla piattaforma NoiPA, il portale utilizzato dagli statali per la gestione degli stipendi.

Tra le indicazioni contenute nella guida:

  • creare password complesse, evitando nomi familiari o date facilmente intuibili;
  • cambiare periodicamente le credenziali di accesso;
  • non accedere alla posta istituzionale da dispositivi personali, come smartphone e tablet non autorizzati.

Si tratta di raccomandazioni, non di obblighi sanzionabili, ma il governo punta a diffondere una maggiore consapevolezza tra i lavoratori pubblici, sempre più esposti a tentativi di phishing, ransomware e attacchi DDoS.

A preoccupare sono soprattutto i numeri. L’Agenzia per la cybersicurezza nazionale ha registrato un aumento del 40% degli attacchi rispetto al 2023 e un quasi raddoppio degli incidenti, con episodi sempre più frequenti di divulgazione non autorizzata di dati sensibili sottratti da sistemi vulnerabili.

Il vademecum, che sarà affiancato da una campagna informativa a cura della Presidenza del Consiglio, rappresenta un passo concreto per alzare le difese del settore pubblico in un contesto in cui la sicurezza informatica è diventata una priorità strategica nazionale.


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Cyberattacco globale via Microsoft SharePoint: nel mirino agenzie federali USA, università e imprese

Una grave falla nei server locali di Microsoft SharePoint è stata sfruttata da un gruppo di hacker per condurre un’ampia campagna di cyberattacchi che ha colpito istituzioni pubbliche e aziende in tutto il mondo. Secondo quanto riportato dal Washington Post, tra gli obiettivi compromessi figurano almeno due agenzie federali degli Stati Uniti, il parlamento di uno Stato americano, alcune università, compagnie del settore energetico e una società di telecomunicazioni con sede in Asia.

Gli attacchi hanno interessato la versione “on-premise” di SharePoint Server, piattaforma di collaborazione sviluppata da Microsoft e impiegata per la gestione interna dei documenti, distinta dalla più sicura versione cloud “SharePoint Online”. La vulnerabilità, spiegano gli esperti, ha permesso agli hacker di infiltrarsi nei sistemi prima che l’azienda rilasciasse aggiornamenti correttivi.

A destare particolare preoccupazione è l’ampiezza dell’attacco: migliaia di server SharePoint in tutto il mondo sarebbero potenzialmente esposti, mentre i governi di Stati Uniti, Canada e Australia hanno avviato indagini congiunte per fare luce sull’origine e sulle finalità dell’operazione.

Secondo una società di cybersecurity che collabora con il Dipartimento della Sicurezza Interna statunitense, anche server localizzati in Cina e ambienti parlamentari statali americani risultano compromessi. Microsoft, nel frattempo, non avrebbe ancora diffuso una patch definitiva per chiudere la nuova vulnerabilità emersa, lasciando molte strutture informatiche vulnerabili e alla ricerca urgente di contromisure.

Non è ancora chiaro chi si celi dietro l’attacco né quale sia il reale obiettivo, ma il caso evidenzia ancora una volta i rischi legati all’uso di infrastrutture software non aggiornate e alla crescente esposizione delle istituzioni pubbliche a minacce informatiche su scala globale.


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Open Arms, Nordio: “Niente impugnazione contro sentenze di assoluzione, come in tutti i paesi civili”

 “Niente impugnazione contro le sentenze di assoluzione, come in tutti i paesi civili. Altrimenti finiamo a ciò che è avvenuto col caso Garlasco. Al di là delle implicazioni politiche di questa scelta inusuale, si pone il problema tecnico. Come potrebbe un domani intervenire una sentenza di condanna al di là di ogni ragionevole dubbio, quando dopo tre anni di udienza un giudice ha dubitato e ha assolto? La lentezza della nostra giustizia dipende anche dall’incapacità di molti magistrati di opporsi all’evidenza. Rimedieremo”.

Così il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, a margine del convegno di FDI “Parlate di mafia”, in relazione all’impugnazione della sentenza di assoluzione sulla vicenda Open Arms nei confronti di Matteo Salvini, allora Ministro dell’Interno.

“Se la fiducia nella giustizia è crollata – prosegue il Guardasigilli – è anche perché alcuni magistrati trascinano processi eterni senza pensare alle conseguenze devastanti che provocano nella vita delle persone. Solo quando il macigno ti cade addosso, come nel caso del sindaco Sala, ci si rende conto delle criticità del nostro sistema. Per questo lo cambieremo”.

“Esprimiamo sdegno e viva preoccupazione per le dichiarazioni rese dal ministro della Giustizia Carlo Nordio in occasione della manifestazione ‘Parlate di mafia’. Che il titolare del dicastero della Giustizia possa ritenere che l’espressione pubblica del pensiero di un magistrato in servizio meriti l’intervento degli “infermieri” o diventi oggetto di valutazione disciplinare rappresenta un fatto grave, incompatibile con i principi fondamentali di uno Stato di diritto. La libertà di manifestazione del pensiero è garantita dalla Costituzione. Purtroppo, da parte del ministro, si registra un uso ricorrente della minaccia disciplinare, evocata come uno strumento di pressione e intimidazione nei confronti di decisioni sgradite o legittime critiche”. Così la Giunta esecutiva centrale dell’Associazione nazionale magistrati in una nota.

“Criticare non significa offendere, e dissentire non equivale a mancare di rispetto. La libertà di espressione non può essere compressa né svilita attraverso prospettive di riforma che assumono il volto della ritorsione o attraverso un improprio ricorso agli strumenti disciplinari. La critica, anche aspra, alle decisioni ministeriali non può essere scambiata per lesa maestà. Le parole del ministro confermano, purtroppo, ciò che l’ANM denuncia da tempo: il vero obiettivo della riforma sembra essere quello di intimidire, indebolire e infine ridurre al silenzio la magistratura. Siamo stati, e restiamo, disponibili al confronto. Ma non possiamo accettare che ci venga imposto il silenzio”, conclude la Giunta.

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Visto che anche in Europa realizzano utili da capogiro, è inaccettabile che queste realtà continuino a pagare le tasse nei paesi a fiscalità di vantaggio. Questa condotta, oltre a essere eticamente riprovevole, continua ad essere un cavallo di battaglia politico dell’Amministrazione Trump. A tal punto che nel G7 di Kananaskis (Canada) dello scorso mese di giugno, gli USA hanno imposto un accordo che esenta le proprie multinazionali dall’applicazione della Global minimum tax (Gmt).  Una tassazione mondiale al 15 per cento in capo ai colossi con un fatturato superiore ai 750 milioni di euro all’anno che, invece, rimarrà applicata solo alle grandi holding dei paesi Ocse. Questa riflessione giunge dall’Ufficio studi della CGIA.

  • Con dazi al 30%, un costo fino a 35 miliardi l’anno

I dazi doganali al 30 per cento pretesi dall’Amministrazione Trump potrebbero innescare una serie di effetti diretti sulle nostre esportazioni a cui andrebbero sommati anche quelli indiretti – come l’ulteriore svalutazione del dollaro sull’euro[1], un aumento dell’incertezza dei mercati finanziari e un probabile incremento del costo di molte materie prime – in grado di provocare un danno economico al nostro sistema produttivo fino a 35 miliardi di euro all’anno. Praticamente la dimensione di una finanziaria. La stima è stata realizzata dall’Ufficio studi della CGIA.

  • Alcuni dati sui colossi del web

I primi 20 colossi tecnologici statunitensi[2] hanno prodotto a livello mondiale un fatturato aggregato che nel 2022 ammontava a 1.345 miliardi di euro. Un importo, quest’ultimo, che in quell’anno ha sfiorato il 70 per cento del Pil italiano; mentre le principali multinazionali del web presenti in Italia[3], sempre tre anni fa hanno realizzato nel nostro Paese un fatturato di 9,3 miliardi di euro, versando al fisco italiano “solo” 206 milioni di euro[4].

  • Il confronto tra piccoli e WebSoft

Se le nostre piccole e micro imprese nel 2022 hanno pagato 27,2 miliardi di tasse[5], i 16 gruppi (che controllano 47 società) di big tech presenti in Italia[6] ne hanno versate molte meno: come dicevamo più sopra, solo 206 milioni di euro[7]. Certo, le dimensioni economiche di queste due realtà sono molto diverse, ma, dal punto di vista della CGIA, il risultato che emerge è sconsolante. Se le piccole aziende italiane prese in esame producono un fatturato annuo 98,5 volte superiore a quello riconducibile alle big tech, in termini di imposte, invece, le prime ne pagano ben 132 volte più delle seconde[8]. Insomma, possiamo affermare con buona approssimazione che la distanza in termini di fatturato non giustifica quella relativa al gettito, così svantaggiosa per le Pmi. Certo, quella appena richiamata è una comparazione che presenta una serie di limiti metodologici e non ha alcun rigore scientifico. Tuttavia, il ricorso sistematico all’elusione praticato negli anni ha incrementato questo gap, mettendo in evidenza in misura inequivocabile che, in Italia, alle multinazionali, in questo caso tecnologiche, continua a essere riservato un trattamento fiscale di grande “favore”.

  • Solo in Molise le big pagano più tasse delle imprese locali

Se a differenza di quello che abbiamo appena illustrato, allarghiamo il confronto a tutte le imprese presenti in ciascuna delle 20 regioni italiane e i colossi del web che operano nel nostro Paese[9], l’Ufficio studi della CGIA rileva che solo le attività economiche del Molise pagano meno tasse delle big tech presenti nel nostro Paese. I 206 milioni di imposte versate dai giganti del WebSoft non hanno nulla a che vedere con quanto pagano le imprese lombarde che, invece, danno all’erario 144,6 volte in più, quelle laziali 60,4 volte in più e quelle venete 42,3 volte in più.

[1] Ricordiamo che dall’inizio del 2025 fino a oggi, il dollaro si è svalutato del 13,5 per cento rispetto all’euro.

[2] Amazon.com, Alphabet, Microsoft, Meta Platforms, International Business Machines, Oracle, Uber Technologies, Salesforce.com, Adobe, Booking Holdings, Automatic Data Processing, Vmware, Waifair, Qurate Retail, Expedia, Chewy, Ebay, Airbnb e Actvision Blizzard

[3] Adobe, ADP, Alibaba, Alphabet, Amazon (10 società con sede in Italia), Booking, IBM, JD.com, Meta, Microsoft, Oracle, Otto, SAP, Salesforce, Uber e Vipshop.

[4] Area Studi Mediobanca, Software & Web companies (2019-2023), Milano, 14 dicembre 2023.

[5] Stiamo parlando di 2,9 milioni di imprese con un fatturato annuo inferiore a 5 milioni di euro. Non sono inclusi i lavoratori autonomi in regime forfettario. Le imposte calcolate sono Irpef, Ires e Irap.

[6] Adobe, ADP, Alibaba, Alphabet, Amazon, Booking, IBM, JD.com, Meta, Microsoft, Oracle, Otto, SAP, Salesforce, Uber e Vipshop.

[7] L’importo di 206 milioni di euro include anche la Digital Service Tax. Quest’ultima è un’imposta pari al 3% dei ricavi generati nel periodo di imposta derivanti dalla fornitura di servizi digitali, applicata alle imprese che, individualmente o a livello di gruppo, hanno realizzato un ammontare di ricavi pari o superiori a 750 milioni di euro e ricavi derivanti da servizi digitali realizzati nello Stato italiano non inferiori a 5,5 milioni di euro.

[8] Il fatturato delle piccole imprese italiane nel 2022 è stato pari a 916,3 miliardi di euro. Sempre nello stesso anno quello delle principali big tech presenti nel nostro Paese ha toccato i 9,3 miliardi di euro.

[9] Secondo l’Area Studi di Mediobanca la quasi totalità opera a Milano e provincia.


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Nuova sanatoria per le partite IVA, ma scoppia il caso sui crediti dei lavoratori

Un emendamento dopo l’altro, la maggioranza tenta di far ripartire il concordato preventivo per le partite IVA, finora sottoutilizzato. Con un provvedimento approvato in Commissione Finanze alla Camera, il centrodestra inserisce nel Decreto fiscale un nuovo ravvedimento speciale: una sorta di sanatoria che consente ad autonomi e professionisti di “scudare” le annualità dal 2019 al 2023, pagando imposte ridotte in base alla propria pagella fiscale (ISA).

Ma mentre si aprono nuovi spiragli per il fisco, si accende la polemica su un altro fronte: la proposta di prescrivere i crediti retributivi anche durante il rapporto di lavoro. Una modifica che, secondo l’opposizione e i sindacati, rappresenta un duro colpo ai diritti dei lavoratori.

Concordato bis: nuove regole, stesso obiettivo

Il nuovo ravvedimento speciale si configura come una replica della sanatoria già introdotta nel 2024. Potranno aderirvi, nel biennio 2025-2026, i professionisti che sceglieranno di sottoscrivere per la prima volta il concordato preventivo con l’Agenzia delle Entrate. L’importo da versare varierà in base al punteggio ISA:

  • Chi ha un punteggio pari o superiore a 8 pagherà il 10% del reddito non dichiarato;
  • Tra 6 e 8, l’aliquota salirà al 12%;
  • Sotto il 6, si pagherà il 15%.

A questi si aggiunge una quota Irap del 3,9% per tutti, mentre per gli anni pandemici 2020 e 2021 è previsto uno sconto ulteriore del 30%. Il versamento potrà essere effettuato in un’unica soluzione (dal 1° gennaio al 15 marzo 2026) o in dieci rate mensili, con l’aggiunta degli interessi.

Il governo ha stanziato 395 milioni di euro per coprire gli oneri della misura nel quinquennio 2026-2030. L’obiettivo è recuperare risorse per finanziare un nuovo taglio dell’IRPEF, dopo che la prima edizione del concordato ha avuto una partecipazione inferiore alle attese: meno di 600 mila adesioni su oltre 4 milioni di potenziali beneficiari.

La critica dell’opposizione: “Premiati gli evasori”

Per il Partito Democratico si tratta dell’ennesimo “condono mascherato”. Cecilia Guerra, responsabile lavoro del PD, è netta: “Un ulteriore schiaffo a chi paga regolarmente. È il solito regalo a chi ha evaso”. Protestano anche i Cinque Stelle: “Mentre la maggior parte delle partite IVA è lasciata sola, il governo strizza l’occhio a pochi privilegiati”.

La miccia dei crediti di lavoro: “Una norma pericolosa”

Ben più accesa è la reazione sulla norma che riguarda i crediti retributivi dei lavoratori. Un emendamento al nuovo Decreto Ilva prevede che anche durante il rapporto di lavoro decorra la prescrizione per le somme dovute ma non versate ai dipendenti. Oggi, invece, i lavoratori hanno cinque anni di tempo dopo la cessazione del contratto per rivendicare differenze retributive, evitando il rischio di ritorsioni.

L’emendamento punta anche a limitare il potere dei giudici nel riconoscere l’adeguatezza della retribuzione, impedendo di fatto il pagamento di arretrati anche in caso di “grave inadeguatezza”. Una norma che, secondo CGIL, UIL, PD, M5S e AVS, “favorisce le grandi imprese e penalizza i lavoratori”.

Un attacco al diritto del lavoro?

“È l’ennesimo colpo al diritto del lavoro”, affermano i sindacati. Per l’opposizione, si tratta di una modifica che mina le basi della tutela dei dipendenti, rendendo più difficile rivendicare quanto loro spetta, e riducendo il potere contrattuale nei confronti dei datori. In pratica, una norma che rischia di legalizzare il mancato pagamento delle retribuzioni in caso di rapporti duraturi.


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SPID sotto attacco: l’identità digitale clonata diventa trappola per i dipendenti pubblici

Un nome, un volto, un codice fiscale: bastano questi dati per trasformare l’identità digitale in un’arma nelle mani dei cybercriminali. Da mesi, il fenomeno della clonazione dello SPID – il Sistema Pubblico di Identità Digitale – sta mettendo in ginocchio centinaia di utenti, in particolare nel settore pubblico. Dalle buste paga scomparse ai rimborsi fiscali mai accreditati, i danni sono tangibili e diffusi. A confermarlo sono le numerose segnalazioni, i casi documentati e l’intervento delle piattaforme pubbliche, che stanno correndo ai ripari con sistemi di autenticazione rinforzati.

Ma perché SPID è diventato un bersaglio così vulnerabile?

Un’identità digitale, mille varchi aperti

SPID è la chiave d’accesso ai principali servizi online della Pubblica Amministrazione – da INPS a NoiPA, fino all’Agenzia delle Entrate – ed è usato ogni mese da milioni di cittadini. Il sistema è basato su una logica federata tra più provider, ognuno autonomo nell’attivazione e nella gestione delle credenziali. Questo però comporta una fragilità: è possibile creare più SPID a nome dello stesso cittadino, usando email e numeri di telefono diversi, senza che il titolare originario riceva alcuna notifica.

E proprio su questa debolezza si inserisce il nuovo schema truffaldino.

Come funziona la truffa del “doppio SPID”

Tre le fasi principali del raggiro:

  1. Acquisizione dei dati: i truffatori raccolgono documenti e codici fiscali tramite phishing, smishing, malware o acquistandoli sul dark web.
  2. Clonazione dell’identità digitale: con questi dati attivano un nuovo SPID a nome della vittima, sfruttando provider diversi e simulando la verifica dell’identità anche con tecnologie come il deepfake.
  3. Dirottamento dei fondi: accedendo ai portali della PA, modificano l’IBAN legato all’account, facendo confluire stipendi, pensioni o rimborsi fiscali su conti a loro controllo.

Le vittime, spesso dipendenti pubblici, scoprono l’inganno solo dopo il mancato accredito.

I più colpiti? I dipendenti pubblici

La truffa non risparmia nessuno, ma i lavoratori del settore pubblico risultano particolarmente esposti. Sono infatti tra i maggiori utilizzatori dello SPID per la gestione mensile delle proprie retribuzioni e dei servizi fiscali e previdenziali. Si registrano casi tra docenti, sanitari, impiegati amministrativi: alcuni hanno visto scomparire interi stipendi, altri si sono trovati con dati bancari alterati a loro insaputa.

Una dinamica preoccupante, aggravata dall’impossibilità per il cittadino di monitorare in autonomia tutte le identità SPID attive a suo nome: per farlo è necessario contattare ogni singolo provider.

Le tecniche usate dai truffatori: phishing, malware e deepfake

La truffa si avvale di un arsenale sofisticato:

  • Phishing: email fasulle che imitano le comunicazioni ufficiali per carpire credenziali SPID o OTP.
  • Smishing: SMS ingannevoli che spingono l’utente a cliccare su link malevoli.
  • Vishing: chiamate da finti operatori pubblici che estorcono informazioni con tono rassicurante.
  • Malware: software nascosti che intercettano dati dai dispositivi.
  • Deepfake: video manipolati per superare i controlli visivi dei provider SPID.

Il caso NoiPA: rafforzata la sicurezza

Proprio per contrastare la truffa del doppio SPID, la piattaforma NoiPA, dedicata ai dipendenti pubblici, ha introdotto una misura difensiva: se l’utente accede con SPID/CIE/CNS mai usati prima, riceverà un codice OTP via email per confermare l’identità. Una barriera in più, che punta a bloccare accessi non autorizzati e arginare il fenomeno.

Come difendersi: regole d’oro e raccomandazioni

Per proteggersi dal furto di identità digitale, ecco alcune strategie:

  • Attivare sempre l’autenticazione a due fattori (2FA) con app dedicate.
  • Controllare periodicamente gli IBAN registrati sui portali pubblici.
  • Scrivere ai provider SPID per verificare eventuali attivazioni sospette.
  • Non inviare mai documenti personali via email o chat non sicure.
  • Utilizzare password complesse e diverse per ogni account.
  • Aggiornare sistemi operativi e antivirus, ed evitare il salvataggio automatico di dati nei browser.
  • Attivare le notifiche bancarie per essere avvisati in tempo reale di movimenti sospetti.

E se si cade nella trappola?

Chi scopre di essere vittima della truffa deve:

  • Contattare subito il proprio provider SPID e richiedere il blocco dell’identità digitale clonata.
  • Sporgere denuncia presso la Polizia Postale o i Carabinieri.
  • Avvisare la banca e bloccare carte o conti compromessi.
  • Rivolgersi ad associazioni di tutela dei consumatori per assistenza legale.
  • Segnalare l’accaduto all’AgID, l’Agenzia per l’Italia Digitale.

Verso una nuova identità digitale europea

La fragilità strutturale dello SPID ha spinto l’Unione Europea a promuovere il European Digital Identity Wallet (EUDI Wallet), un sistema centralizzato e interoperabile che promette maggiore sicurezza, tracciabilità e protezione biometrica. Ma la piena implementazione richiederà tempo.


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Tajani tra giustizia e carceri: i temi caldi del vertice di centrodestra

Al centro dell'attenzione c'è la riforma della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, mentre la questione delle carceri, nonostante la sua urgenza, potrebbe…

Fermo del Portale delle Vendite Pubbliche (PVP) per attività di manutenzione straordinaria

Si comunica che dalle ore 16:00 alle ore 18:30 del giorno 21 luglio 2025 i servizi del Portale delle Vendite Pubbliche subiranno un fermo per improrogabili attività di manutenzione straordinaria da parte del gestore dell’infrastruttura su cui è ospitato il Portale.

Le modifiche potrebbero interessare l’intero territorio nazionale coinvolgendo anche i sistemi di consultazione del civile.

Ricordiamo che sarà possibile depositare telematicamente con Service1 seguendo l’apposita guida disponibile al seguente LINK GUIDE


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Femminicidio, primo sì unanime in Senato: nasce il nuovo reato con pena dell’ergastolo

Con voto unanime, la Commissione Giustizia del Senato ha approvato il testo che introduce per la prima volta nel codice penale italiano il reato autonomo di femminicidio. Il nuovo articolo 577-bis riconosce la specificità della violenza che colpisce le donne in quanto donne, spesso all’interno di relazioni affettive, familiari o segnate da dinamiche di dominio e controllo.

A illustrarne la portata è la senatrice Giulia Bongiorno, presidente della Commissione, in un’intervista rilasciata a Parlamento 24: “Non si tratta semplicemente di un omicidio. Il femminicidio è un atto che nasce da un’idea di superiorità, da odio, da discriminazione. Per questo abbiamo ritenuto necessario introdurre una fattispecie autonoma, con una pena severissima: l’ergastolo”.

Una risposta alla violenza sistemica

La decisione arriva in un momento in cui la piaga dei femminicidi continua a colpire il Paese con numeri allarmanti. “Dare un nome a questo reato – ha detto Bongiorno – è un modo per uscire dalla neutralità del linguaggio penale e riconoscere che la morte di una donna, in questi casi, è sempre l’esito di una mentalità di sopraffazione. Non è solo un fatto simbolico, ma un passaggio concreto, normativo e culturale”.

Il reato di femminicidio sarà quindi distinto dall’omicidio comune, ponendo l’accento non solo sull’evento, ma anche sul movente: l’odio di genere, la volontà di controllo e la punizione per l’indipendenza femminile.

Indagini più efficaci e misure cautelari rafforzate

Oltre all’introduzione del nuovo reato, il provvedimento prevede una serie di modifiche alle norme del cosiddetto Codice Rosso, con aggravanti specifiche e strumenti di contrasto potenziati. Le intercettazioni disposte nell’ambito di procedimenti per violenza di genere non avranno più il limite dei 45 giorni, consentendo agli inquirenti maggiore efficacia investigativa.

Viene inoltre rafforzato l’uso del braccialetto elettronico: per i soggetti imputati per reati del Codice Rosso sarà più facile applicare misure come l’arresto domiciliare con controllo remoto, grazie a una presunzione di pericolosità già in fase cautelare.

“Finora – spiega Bongiorno – i dispositivi non erano sufficienti, ma il Ministero sta lavorando per aumentare la disponibilità. È uno strumento indispensabile per monitorare in tempo reale chi commette atti violenti contro le donne”.

Più tutela per gli orfani dei femminicidi

Una novità significativa riguarda anche i figli delle vittime. Il testo amplia la platea degli orfani di femminicidio che potranno accedere ai benefici di legge, includendo anche quelli nati fuori da relazioni stabili. “Si tratta – ha sottolineato la presidente – di bambini che non solo perdono la madre, ma restano senza riferimenti, e lo Stato deve riconoscere questa condizione”.

La strada da fare

Il nuovo reato di femminicidio è un passo avanti nella definizione normativa del fenomeno, ma non è una soluzione esaustiva. “Non basta una legge per fermare il femminicidio – ha concluso Bongiorno – serve una battaglia culturale, educativa, preventiva. Ma oggi, finalmente, abbiamo iniziato a chiamare questa violenza con il suo vero nome”.


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